Il termine “sindrome della capanna ” è termine che pare esser stato coniato nei primi del 900 del secolo scorso all'epoca della corsa all'oro negli Stati Uniti.
I cercatori d'oro nelle miniere, la cui attività era concentrata soltanto in determinati periodi dell'anno, passavano i restanti mesi chiusi in capanne. Il lungo isolamento faceva sentire i suoi effetti che si manifestavano sottoforma di rifiuto di tornare alla civiltà, sfiducia nei confronti del prossimo, stress e ansia. Condizione comune poi anche allo stile di vita dei guardiani dei fari prima dell'automatizzazione, o ai lunghi e rigidissimi inverni in alcune regioni degli Stati Uniti a costringere a casa gli abitanti come in una sorta di “letargo”.
Ecco allora che il termine “cabin fever” è stato rispolverato, più che durante le settimane di quarantena, al termine del lockdown, e la sindrome della capanna viene fatta corrispondere a quella particolare condizione emozionale che può essersi generata dall'isolamento durato diverse settimane e che molti, più di quanti si pensi, stanno vivendo in questo momento. Che l'imposizione dell'isolamento può aver fatto si che, nel contrastare gli aspetti e i vissuti spiacevoli della straordinaria situazione, ci adattassimo al confinamento. Così da quella particolare comfort zone, ora, nel riaffacciarci al mondo esterno e nel ricominciare delle attività, c'è chi sta sperimentando, tra altro, reazioni di timore, preoccupazione, un senso di inadeguatezza,..... per il ritorno a quella normalità e a quella vita in una società che già prima non era così “facile”, né in fondo rispettosa dei ritmi o delle condizioni di ognuno in termini di umanità.
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Ricominciando, dove possibile, anche nel fuori
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Foto dal sito printerest.it
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